Immagine promozioale di Dead Island 2 che raffigura un ragazzo seduto su una poltrona galleggiante, con sguardo sicuro, al centro di una piscina, mentre intorno a lui degli zombie stanno per attaccarlo. In primo piano si notano gli immancabili fenicotteri rosa; sullo sfondo le palme losangeline.

Esiste un luogo, un girone dantesco tutto dedicato a quei prodotti (specialmente d’intrattenimento) che mai hanno visto e mai vedranno la luce: il development hell. Una categoria in cui il franchise di Dead Island occupa un posto di comando, essendo per forza di cose un noto tesserato del circolino.

Attenzione però, i drammi non ebbero inizio con Dead Island 2, bensì già con Dead Island, annunciato nel 2006 e pubblicato appena cinque anni dopo. Ne scaturì un divertente quanto urticante shooter in chiave horror, contaminato dai soliti quattro elementi ruolistici e che a tratti risultava ingiocabile. Naturalmente lo amai.

Chiusa la parentesi Dead Island Riptide, espansione stand alone che non si curava minimamente di ovviare quel pugno di problemini che infestavano il gioco base, ecco che nel giugno del 2014, in quel antico e ormai misterioso luogo losangelino anche noto come Electronic Entertainment Expo – l’E3 – venne presentato Dead Island 2.  

Il trailer divertì molto, a tratti moltissimo, con questo tizio palesemente affetto da egomania che fa jogging nell’indifferenza di una Venice Beach in preda ai morti viventi. Il solo problema arrivati a questo punto del racconto, è che quel trailer è stato per molto tempo l’unico vero elemento a comprova dell’esistenza di un Dead Island 2; e come spesso accade dopo tanta latitanza, il pubblico si è voltato dall’altra parte. L’umore generale era infatti proteso verso la cancellazione del gioco, apparentemente infestato da ogni problema di sviluppo possibile e immaginabile.

Io stesso l’avevo dimenticato. Eppure, come un novello Conte di Montecristo, ecco che Dead Island 2 fece ritorno cogliendo tutti di sorpresa, me compreso. Come nulla fosse, il gioco sembrava di colpo godere di ottima salute, con i nuvoloni fantozziani oramai alle spalle. E oggi, dopo circa cinquanta ore passate a nuotare a dorso nel mortale grand guignol della città degli angeli, ecco che sono finalmente pronto per parlarvi del ritorno dei morti viventi sull’isola della morte (suona strano in italiano, eh? NdCLod) 

Sviluppato dai britannici Dambuster Studios – di cui ricordavo solo un pessimo sequel di Homefront – sotto la sempreverde Deep Silver, Dead Island 2 è senza alcun dubbio, se non il migliore, il più divertente esemplare della sua categoria, superando a mio avviso persino il non bellissimo (ma spassoso) Dying Light 2. Le ragioni risiedono interamente nella sua direzione artistica: estrosa ed estrema (giochino di parole voluto). DI2 non ha mire virtuose né agonistiche: dubito che Deep Silver abbia la pretesa di solcare il palco del The Games Awards. Ciò nonostante è indiscutibile quanto invece fosse solida la volontà di portare allo stato dell’arte la “zombiefollia” inaugurata con Dead Island e poi proseguita con Dying Light.

Parliamoci chiaro: la forza di Dead Island è sempre stata nella sua violenza a schermo. Una brutalità presto divenuta un trademark del brand. Menomare, dilaniare e decapitare zombie e affini non era mai stato così appagante (e divertente) come in Dead Island: archetipo più che caratteristica, che Dead Island 2 sublima sino al punto omega. Dambuster ha compiuto un lavoro eccelso sul piano visivo e fisico, con un level design ai limiti del maniacale e con un viscerale dettaglio per quanto concerne lo smembramento dei numerosi mob che incontreremo. Personalmente non ho mai visto un tale livello di gore procedurale prima d’ora; che ironicamente mi ha ricordato quella Troma dei tempi migliori. 

Non ho nominato invano la Troma, questo perché al di là della violenza gratuita, in Dead Island 2 si ride, e spesso di buon gusto. L’impressione è che aleggi una gigantesca ombra ironica, quasi parodistica. Inoltre il gioco ci suggerisce di non prendere troppo sul serio quello che sta accadendo, e non perderà tempo a ricordarcelo: indipendentemente dal personaggio che si selezionerà nel prologo, saranno tante, a tratti tantissime, le linee di dialogo votate alla risata. Piacevoli intermezzi che creeranno quel fantastico senso di schifo divertito che, per l’appunto, distingueva la Troma di Lloyd, Hertz e James Gunn.

Il panorama apocalittico, con un cielo rosso fuoco, dello scenario di Dead Island 2.

Dead Island 2: Blood, Sex and Gore!

Come accennavo, in DI2 i danni che infliggeremo saranno caratterizzati da un effetto smembramento inaudito. Colpendo il volto di uno zombi lo deturperemo in maniera oscena, così come privandolo delle gambe lo costringeremo a strisciare. Il tutto con un’abbondante dose di viscere sempre in bella vista. Se però questo rappresenta il lato più sorprendente del titolo, lo è decisamente meno il suo gameplay. In un certo senso si ha l’impressione che Deep Silver non abbia voluto, o potuto, svecchiare il combat system già presente in Dead Island e Dying Light. Pugni, stoccate e fendenti risulteranno spesso goffi e anchilosati, al netto però di un feedback nel complesso soddisfacente: quel fendente è brutto da vedere? Aspettate che colpisca il barcollante di turno, poi ne riparliamo.

Se avessimo voluto considerare il gameplay come il solo e unico standard qualitativo, la review sarebbe potuta finire più o meno qui. D’altronde ritengo ci sia poco altro da aggiungere: gli scontri, prevalentemente melee, non seguiranno mai alcun tatticismo, ritrovandosi spesso a sbracciare colpi a destra e a manca, riducendo il tutto a un grottesco bullet hell con spade e martelli. Persino l’ambiente, qui declinato a vera e propria arma, non soddisfa se non per apparenza estetica. I numerosi modi per falcidiare i morti con cavi scoperti, barili esplosivi o contenitori colmi di solventi caustici, non appaiono così appaganti come Dambuster probabilmente sperava. L’impressione è stata quella tipica del tutorial: “vedi quel cavo lì? Bene, e quella tanica d’acqua lì? Bene, e sai cosa succede quando l’elettricità attraversa una fonte d’acqua? Bene, e sai cosa succede quando dai fuoco alla benzina? Bene…”. Il gioco ti fornisce milleuno modi per uccidere uno zombie, quasi sempre però ti ritroverai tutto sotto il naso, come le taniche d’acqua perennemente nei presi di una fonte elettrica. Fortuna che il level design è anche altro.

Tre zombie minacciano il protagonista in soggettiva di Dead Island 2.

Los Angeles non è così tutti i giorni?

Nel nostro immaginario collettivo L.A. – qui opportunamente ribattezzata Hell-A – è sempre stata un luogo a metà fra l’opulenza in stile 90210 tipica di Hollywood, e la pericolosità, a tratti estrema, dei quartieri popolari. Dead Island 2, molto democraticamente, porta tutti sullo stesso livello. Che sia Bel-Air o Beverly Hills, tutto a Hell-A cercherà di uccidervi. Vi posso assicurare che le imponenti ville dello star system non sono mai state così crude. Non a caso il character design è uno dei più notevoli per varietà di modelli: dai giardinieri che quotidianamente si occupavano delle milionarie aiuole dei ricchi, passando per le varie Pamela Anderson in arte CJ Parker che vi inseguiranno per le spiagge di Santa Monica.

Grotteschi sono anche quelli che amorevolmente ho ribattezzato “Dianabol Zombie”, che altro non sono che bodybuilder zombificati, guarda il caso, assembrati principalmente nei pressi della Gold’s Gym di Venice. È diegetico che questo tipo di zombie sia così per via degli steroidi. Non ci posso fare nulla, queste gag mi fanno troppo ridere.

Avrete forse notato che in questa recensione non ho aperto con il solito accenno di trama. La ragione è che in Dead Island 2 la narrazione finisce per forza di cose in secondo piano. Badate bene, una trama c’è eccome, persino la lore è tutt’altro che banale, ma fatica a imporsi in un’estemporanea videoludica di questa tipologia. D’altronde la sinossi parla di un virus (?) che pian piano si diffonde nella metropoli californiana, dove proprio come in Dead Island, ci saranno dei sopravvissuti che guarda caso saranno anche immuni. Inoltre questo non è The Last of Us, dove c’è un focus per ogni singolo elemento narrativo.

Primo piano di uno zombie con occhiali da sole in Dead Island 2.

Qui tutto questo non c’è, e forse è meglio così. Perché in fondo è la quasi totale assenza di serietà, quasi a non volersi prendere sul serio, a rendere Dead Island 2 quel tipo di videogioco che oggi, nel marasma di un’offerta sempre più pervadente, aiuta a divertirsi genuinamente senza quella voglia ossessiva di autorialità.

Sono sinceramente contento di aver passato così tanto tempo a Hell-A, dove al netto di qualche pop-in e sporadici cali di frame rate in modalità cooperativa (trama e secondarie fatte rigorosamente in single player), non ho riscontrato nulla di tecnicamente sbagliato…a differenza di Dying Light 2. Per cui, tirando le somme, vi posso solo consigliare di giocarlo; anche perché dubito troverete qualcosa di altrettanto bello e divertente a stretto giro. Chissà se Carpenter l’avrà giocato?

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